La Valle Maledetta

2000 by abietto

“La colpa, dobbiamo dire, è tua. Hai sopravvalutato la tua potenza quando hai creduto di poter fare quel che volevi con le tue pulsioni sessuali, e che non occorreva avere alcun riguardo per i loro propositi. Perciò si sono ribellate e hanno seguito le loro oscure vie per sottrarsi alla repressione e farsi giustizia da sé in un modo che non può più piacerti.”
(S. Freud, Una difficoltà della psicoanalisi)

Non ricordo affatto come giunsi in quella valle maledetta. Ho solo qualche breve ricordo di un sentiero grigio serpeggiante in mezzo a una vegetazione verdazzurro, di un tramonto che arrossava l’occidente; il cielo che sfumava verso il viola, l’indaco, il blu notte e il nero e un firmamento di stelle fredde e aliene che si accendevano sull’arco della mia visuale. Ricordo una brezza frizzante e odori di bosco e di paglia bruciata.
Non ricordo il mio nome. Il mio vero, primo nome, intendo. Ne ho avuti tanti da dimenticare quello che mi è stato dato al momento della nascita. Ne ho avuti tanti da dimenticare persino se sono davvero nato oppure no. Non ha importanza con quale nome mi chiamino. Nei paesi dell’Ovest mi chiamano John, nelle calde terre del sud il mio nome è Juan mentre nella nebbiosa Isola dei Forti sono Sean. Tra le mura dei castelli dei nobili spesso vengo chiamato Caleb-Mor, il Principe Nero, ma la gente comune mi chiama semplicemente lo Stregone.
Camminai sugli alti sentieri di quella lunga valle lussureggiante, un ovale racchiuso tra dolci colline coperte di prati folti e di boschi, che nascondeva le linee grigie di campi coltivati e le distese verdi dove pascolava il bestiame. All’estremità orientale della valle sorgeva un piccolo paese, niente più di qualche casa, una chiesa, una locanda e qualche bottega degli artigiani. Diressi i miei passi verso quel luogo perché ero stanco e avevo freddo e sonno. Speravo di poter trovare un riparo e un po’ di cibo per sfamarmi: niente lasciava presagire quello che sarebbe capitato.
Il paese, un insieme disordinato di case di pietra con tetti in lastre d’ardesia collegate tra di loro da strade di terra battuta o di sassi arrotondati, sorgeva in un punto meraviglioso, da cui si poteva scorgere l’intera vallata. La locanda era semplice, con un grande camino e pochi tavoli a cui sedevano i rari viaggiatori che passavano da quelle parti. Presi un po’ di zuppa in cui intingere una grossa pagnotta e una birra scura molto forte. L’effetto dell’alcol e dello stomaco pieno aumentò il mio desiderio di coricarmi presto. Tuttavia, prima di poter salire le scale che mi avrebbero condotto al mio materasso di paglia, incontrai lo sguardo di un ragazzino, forse uno degli sguatteri. Il giovane mi si avvicinò e mi disse: “Tu sei lo Stregone, non è vero?”.
“Sì, ragazzo, sono lo Stregone.”
Non sapevo come mi avesse riconosciuto. Forse la mia fama mi aveva preceduto? Forse il ragazzo aveva sentito che non ero uno straniero qualsiasi? Poco importava ormai.
“Allora, se sei davvero lo Stregone”, continuò, “devi venire con me. Devo assolutamente farti vedere una cosa.”
Gli occhi, che fino a poco tempo prima sembravano volersi chiudere di continuo, come se le palpebre fossero fatte di piombo, mi si spalancarono di nuovo di curiosità. Udii me stesso rispondere al ragazzo: “Va bene, andiamo.”
Il ragazzo mi fece strada attraverso le intricate e altalenanti vie nell’ora della sera che precede il crepuscolo. Mi trovai, infine, nello scantinato di una bottega. Una scala di pietra intagliata portava a una sorta di fredda cantina con il soffitto a botte. Un arco della stessa pietra, davanti a me, si apriva su un piccolo cortile interno erboso circondato dalle altre case.
“Ecco,” mi disse “cosa senti qui?”, indicandomi un angolo del muro, poco prima dell’arcata che portava all’esterno.
Mi avvicinai. Toccai il muro con la mano destra, chiudendo gli occhi e cercando di concentrarmi sulle mie sensazioni.

Sangue. Morte. Dolore. Vergogna. Vidi mio padre, dritto davanti a me che sbraitava come fosse indemoniato. Un’armatura, un campo di battaglia, forse. Tutto era sangue, tutto era rosso. Nemmeno la bottega di un macellaio sembrava poter essere tanto calda, appiccicosa, puzzolente. Sfoderai la spada, non potevo più sopportare tutta quella morte. Non potevo più sopportare che mio padre mi parlasse così. Un solo movimento, rapido e deciso, e la testa del mio genitore cadde a terra con un tonfo sordo attutito dal rumore del sangue. Mi sentii terribilmente potente e poi, a un tratto, capii quello che avevo commesso. Il Crimine dei Crimini. Parricidio. Un delitto che nessuno al mondo potrebbe mai perdonare. Con la stessa spada con cui avevo terminato la vita di chi l’aveva donata a me, in un attimo, decisi di uccidermi, trafiggendo il mio stesso corpo. Caddi sul cadavere di mio padre ansando e tossendo, soffocando di dolore e del mio stesso sangue, che usciva a fiotti, seguendo il ritmo del cuore, dal naso e dalla bocca. Non si muore subito in questo modo, non l’avevo mai pensato. Forse con mio padre ero stato più pietoso.

Mi staccai dal muro, all’improvviso, come se mi fossi risvegliato da un terribile incubo. Gli occhi sbarrati, il sudore freddo sulla nuca, i capelli ritti, la pelle d’oca. Le pupille erano capocchie di spillo e il respiro entrava e usciva affannoso tra i denti serrati. Guardai il ragazzo che mi osservava con un’aria preoccupata, quasi dispiaciuta.
“Hai visto anche tu, vero?”, mi chiese.
Feci cenno di sì con la testa, senza riuscire ad aprire le mascelle o a muovere la lingua per parlare. In quel luogo, molto tempo prima, era stato commesso un terribile atto di sangue.
“Questa valle un tempo era rigogliosa e prospera. Forse ai tuoi occhi sembrerà così anche ora, eppure c’è un’ombra che incombe su tutti noi. Nessuno vuole parlare di questa storia. I sacerdoti non vogliono che nessuno sappia di questa terribile colpa. Ma intanto le messi sono ogni anno più povere, le nostre bestie malate e magre. La birra perde il suo sapore e la carne la sua energia. Le donne hanno sempre meno bambini e gli uomini sono deboli e impauriti. Ti ho portato qui perché tu, che hai il potere di farlo, potessi vedere con i tuoi occhi. Tutto è accaduto qui, molto tempo fa, prima che queste case venissero erette così come le vedi ora. C’era un castello, forse, nessuno lo sa. Tu sei uno Stregone, tu puoi liberarci da questo spirito privo di pace.”
Il ragazzo mi guardava implorante. Rimasi a lungo zitto, a respirare lentamente, a recuperare le energie dall’ambiente attorno a me, prima di riuscire a formulare un pensiero, una parola.
“Sì,” dissi infine, “posso aiutarvi. Ma questo significherà fare cose che a te e ai tuoi sacerdoti non piacerebbero affatto.”
“Ormai che abbiamo da perdere?” disse lui.
E io annuii lentamente, osservando la decisione che si nascondeva in fondo ai suoi occhi, dietro il dubbio e la paura.
“Allora portami nel luogo più alto del paese…”

Il tetto della casa era piatto. Forse anticamente era una sala delle guardie con una merlatura che, ormai, era solo immaginabile. Il ragazzo mi guardava incuriosito mentre mi preparavo a un rito terribile, che non avrei mai voluto fare in vita mia: il rito necessario per riportare su questa terra uno spirito dall’oltretomba. Mi concentrai, seduto sui talloni, con le mani abbandonate sulle cosce. Respirai profondamente accentrando su di me il potere che mi sarebbe stato indispensabile. Chiusi gli occhi e cominciai a sentire un profondo calore salirmi dal ventre, dal centro di ogni Volontà, un calore che si dirigeva in ogni più piccolo angolo del mio corpo. La mia Presenza si stava facendo sempre più forte e concreta, sempre più solida. A un tratto sentii un grande schianto, come il cozzo di una spada che colpisce violentemente uno scudo, e qualcosa mi strappò al mio corpo, lasciandolo fermo come un burattino appoggiato a terra. E cominciai a volare. Lentamente acquistai velocità, e lasciai il tetto della casa, potendo tranquillamente osservare il ragazzino che mi guardava stupefatto e me stesso, addormentato o forse in stato di profonda meditazione. Ma il mio essere si allontanava sempre di più e mi dirigevo verso l’estremità occidentale della valle, seguendo la linea curva delle colline. Potevo osservare ogni singolo filo d’erba, ogni capo di bestiame, ogni fiore, ogni piccola fattoria con i suoi recinti e i suoi cavalli. E ogni cosa era un grido, un grido per la vita. Mi convinsi che se avessi toccato l’origine dell’Ovest, il giaciglio su cui ogni notte il sole va a riposarsi, avrei perso la vita.
Non volevo, non volevo assolutamente morire. Ero terrorizzato da quel viaggio indesiderato, dal lancio di una catapulta che mi aveva sbalzato verso una sorte incontrollabile. Dovevo ancorarmi a qualcosa, alla vita, alla gioia, all’amore.
Vidi piccoli topi di campagna che uscivano per raccogliere del cibo mentre il sole lanciava lunghe ombre, e gatti che si tenevano pronti alla caccia. Vidi uomini che si preparavano per rientrare, stanchi e affamati, e donne che stavano cuocendo la cena dentro a grandi paioli di rame. Vidi bambini che giocavano aspettando il momento di essere messi a letto. Le falene, che cominciavano la loro danza di morte attorno alle lampade a olio e alle torce, e le zanzare che cercavano sangue per cibare le future generazioni. Vidi una mucca pezzata che era rimasta fuori dalla stalla e che brucava, scacciando gli insetti con rapidi movimenti della coda…
Non so come successe, ma cominciai a piangere, disperato. A piangere perché non volevo lasciare questo mondo, questa mia esistenza che riservava ancora tanti misteri e segreti da scoprire. Questa mia disperazione venne lanciata come un uncino verso le colline occidentali della valle e sentii un altro strappo, come se stessi ruotando attorno alla mia paura. Venni trasformato in una fionda umana, in una sorta di elastico, e ripresi a volare verso il villaggio, con il sole ormai morente alle mie spalle. Man mano che mi avvicinavo sentivo la vita, che prima mi stava abbandonando, crescere sempre di più e accogliermi nuovamente tra le sue braccia. Mi sentivo libero, potente, privo di paure. Guardavo ogni dettaglio della valle sottostante con fiducia e con serenità.
Rientrai nel mio corpo talmente forte da farlo cadere bocconi sul terreno di pietra del tetto. Mi ripresi di lì a poco, scuotendo la testa e alzandola lentamente. Ora comprendevo ciò che l’Energia stessa mi aveva concesso di fare: avevo raccolto tutto il male che accerchiava la valle come in un assedio, tutto lo spirito maligno che si era sparso come un cancro da quel punto nella cantina della bottega e si era diffuso nell’aria, nella terra, nell’acqua…

Di fronte a me c’era un altro corpo, un corpo che era la prova materiale della mia impresa. Era il cadavere putrefatto di un antico guerriero, di un soldato nobile che sfoggiava un’armatura ormai a pezzi e arrugginita. Le carni si erano aperte a mostrare tendini e muscoli e le ossa biancheggiavano tra i pezzi di ferro intarsiati e sotto l’elmo.
Io ero in piedi di fronte a lui.
Gli ordinai: “Alzati, ora!”.
E il cadavere si mosse.
Si alzò e immediatamente, come se il suo incubo non fosse terminato, si lanciò contro di me!
Io tentai di difendermi coprendomi il volto con le braccia, ma la sua forza era enorme. Mi graffiò con i moncherini delle dita e mi morse con denti affilati. Capii che c’era solo un modo per scacciare questo spirito, ora che era tornato ad avere un corpo, ora che si era reintegrato.
Lo perdonai.
Per ogni morso che stava dando, per ogni graffio, per ogni colpo, per ognuna delle ferite che mi aveva provocato.
Lo abbracciai, lasciandomi trafiggere dai suoi artigli e dalle sue zanne e continuai a perdonarlo, come se il perdono fosse l’unica arma rimasta, come se lo potesse colpire in modo più terribile di qualsiasi spada, di qualunque incantesimo.

Non so per quanto tempo continuai… La notte era ormai inoltrata quando mi fermai, stupefatto. Non sentivo più né graffi né morsi e mi accorsi di tenere in braccio il corpo caldo e morbido di un piccolo neonato. Si era aggrappato a me, sereno, e stava dormendo con il capo appoggiato al mio petto.
Osservai il ragazzo, di fianco a me, che aveva assistito con orrore a quanto era successo. Poi lanciai il bimbo verso il cielo, quasi si trattasse di una colomba da liberare alla fine di un matrimonio, ed egli scomparve, come se non fosse mai esistito.

“Riportare in vita cadaveri o chiamare spiriti dall’Aldilà è sbagliato.” Dissi.
Il ragazzo annuì.
“Certamente i tuoi sacerdoti ti avranno spiegato che questa è stregoneria, Magia Nera.”
Annuì nuovamente.
“Come spieghi allora quello che è accaduto. Mi consideri forse un uomo malvagio per ciò che ho fatto?”, chiesi.
Lui fece cenno di no con il capo e rimase a guardarmi, turbato e privo di risposte.
“Ragazzo… Non è possibile nascondere le colpe, né le nostre né quelle altrui. A volte per riparare è necessario fare cose che sembrano orribili. Voi siete gente religiosa e i vostri sacerdoti vi hanno sempre impedito di ricordare o di affrontare questo spirito. Ma in un certo senso è stato proprio questo… siete stati proprio voi, agendo così, la causa di questa maledizione.”
Il ragazzo annuì, in modo meno meccanico, riflettendo sulle mie parole.
Gli sorrisi e poi scesi da quel tetto, tornando vero la locanda.
Ero più esausto che mai e nulla ora avrebbe potuto impedirmi di riposarmi e dormire a lungo. Il giorno successivo, non appena mi svegliai, lasciai per sempre il villaggio e la sua valle maledetta, non solo con il corpo, ma anche con lo spirito…

Tanto che ora non saprei assolutamente dire dove essa si trovi.

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