Memento

2001 by abietto

Marco si svegliò di botto. L’immagine davanti ai suoi occhi sembrò sovrapporsi a qualcos’altro, qualcosa che si era portato dietro dal regno di Morfeo, uscendone così, di corsa, sbattendo la porta.
Erica stava dormendo della grossa, non si era accorta di nulla. Per un secondo o due parve a Marco che i suoi lineamenti fossero in dissolvenza incrociata con quelli di qualcun altro, di un’altra donna.
Si tirò su a sedere e si passò una mano fra i capelli, grattandosi il cranio. Prese gli occhiali dal comodino e li inforcò. Si alzò e si diresse, inquieto e nervoso, verso il bagno.
Si sedette sulla tazza senza che dovesse espletare alcun bisogno fisiologico, senza calarsi i pantaloni del pigiama. C’era decisamente qualcosa che non andava. E la cosa peggiore era che sentiva alla bocca dello stomaco una sensazione di calore e di vuoto che sembrava proprio senso di colpa, anche se non riusciva a capire per che cosa.
Le sue narici gli trasmettevano un curioso melange di aromi… neve, resina, legno. Era qualcosa che apparteneva al sogno, non c’era altra spiegazione. Può la nostra mente lasciare una testa di ponte dall’altra parte, nei momenti di veglia, e fare segnali di fumo?
Si alzò e si sciacquò il viso nel lavandino, poi si guardò riluttante allo specchio, come se l’immagine riflessa potesse dargli alcune delle risposte che stava cercando, o quanto meno fornirgli qualche indizio per risolvere quell’enigma. Ma lui non aveva neanche idea di quali fossero le domande e, dall’altra parte del cristallo, un Marco altrettanto sbigottito lo osservava con evidenti tracce di occhiaie e di germogli di barba sulle gote.
Tornò in camera da letto e si sedette, pronto a rimettersi sotto il piumone, a tentare di riprendere sonno. Giudicò che fossero passati solo quattro o cinque minuti dal suo improvviso risveglio e, posando gli occhiali sul comodino, diede un’occhiata alla sveglia digitale lì di fianco. L’una e diciassette minuti.
E tutto a un tratto un nome si formò nella sua mente, in modo del tutto spontaneo: Leda.
Non ci fu più verso di prendere sonno.

La macchina sobbalzava un po’. Non si potevano neanche chiamare veri tornanti quelli che portavano al paesino in cui i suoi avevano la piccola casa che sfruttavano per le vacanze, sia in estate che in inverno. Marco, a dire la verità, non ci faceva neanche caso: in genere soffriva la macchina, soprattutto nelle strade tortuose di campagna, ma in quelle occasioni era davvero troppo eccitato per rendersene conto. Arrivarono all’ora di pranzo e i suoi non fecero in tempo a gridargli qualche raccomandazione che lui stava già correndo verso la piazza del paese per incontrare i suoi amici di sempre.
La notò subito e, d’altronde, nel piccolo gruppo di facce conosciute, quel volto nuovo risaltava come se fosse stato sottolineato da una luce diversa. Giocò con i suoi amici per tutto il giorno, incurante degli orari, felice di quel nuovo grazioso acquisto che, come lui, veniva da Milano e che si chiamava Leda.
I dieci giorni di vacanze di Natale in quel piccolo paese passarono allegramente e rapidamente. Sciarono e si dettero all’esplorazione sistematica del circondario. Era da tempo che Marco e i suoi amici disegnavano cartine molto personali della zona. Uno scantinato, una casa abbandonata, un campo innevato, un anfratto tra le rocce delle montagne… gli adulti in tutto questo vedono soltanto un posto in cui mettere le cose vecchie, un’area edificabile, una zona in cui fare sci da fondo o un luogo sporco e maleodorante da evitare. Ma a quattordici anni è tutto diverso: ogni scusa è buona per immaginarsi incredibili avventure o improvvisarsi esploratori. Un amico di Marco, dopo molte insistenze, si era fatto prestare dal padre un coltellino dell’Esercito Svizzero, pieno di lame e strumenti di ogni sorta. L’aveva perso durante una battaglia di palle di neve e si era sorbito una lavata di capo senza precedenti. Da allora, la zona in cui era avvenuto “l’incidente” era stata soprannominata “La Valle del Coltello Perso”. E quando avevano visto un cavallo trottare su un prato distante, l’estate precedente, avevano deciso di rinominare quella conca “Il Prato dei Cavalli Bradi”, anche se sapevano perfettamente che, con tutta probabilità, si trattava di un puledro domestico al pascolo.
Marco era il maestro di questo gioco, quello che aveva le folli idee che poi tutti gli altri, entusiasticamente, facevano proprie e seguivano. Aveva qualcosa in più rispetto a tutti gli altri ragazzini della sua età che lo circondavano, qualcosa che andava oltre la semplice voglia di avventura di tutti gli adolescenti: l’autentica fantasia, la capacità di immaginare o di vedere oltre ciò che appare a prima vista che è propria degli scienziati o dei poeti.

Leda non era da meno, pensò, mentre finiva il suo caffè macchiato nel bicchiere di plastica del distributore automatico dell’ufficio. Si sentiva strano, fuori posto, come se il sogno fosse da questa parte e non da quell’altra. Ma non puoi svegliarti dalla veglia, giusto?
Tornò alla sua scrivania e si impose di rimettersi al lavoro ma, nonostante il terzo caffè della mattina e le sue buone intenzioni, la sua mente continuava a tornare alle immagini del sogno che si erano fatte, al contrario di quanto accade di solito, via via sempre più chiare e distinte dopo la rivelazione di quel nome, durante la notte.
Era nella sua vecchia scuola, la scuola in cui andava anche Leda. L’atmosfera di gioiosa attesa, come quando lo squillo della campanella si faceva, minuto dopo minuto, sempre più vicino, era quella di un sabato mattina. Lei era lì, in un corridoio, ma era grande e vestita in modo elegante. Non c’erano segni di sbucciature sulle ginocchia, non c’erano cerchietti a tenere i capelli castani lontani dalla fronte, né scarpe da ginnastica. Lei lo guardava avvicinarsi con fare divertito.
-Cosa hai dimenticato? - Gli chiedeva nel sogno.
E lui non sapeva rispondere, come quando veniva interrogato e non aveva studiato la lezione. Si sentiva imbarazzato e abbassava lo sguardo. Lei rideva allegramente, come se tutto questo non importasse, e invece lui aveva la netta sensazione che fosse di importanza vitale.
Si sforzava di rialzare gli occhi, e allora Erica, sua moglie, lo guardava dolcemente e gli chiedeva con aria molto seria: -Cosa hai dimenticato?

No, Leda non era da meno. Era stata lei infatti, a scoprire il muretto coperto di rami di edera mezzi rinsecchiti che delimitava il vecchio cimitero abbandonato di un paese poco distante da quello in cui abitavano, alla fine di un’escursione che era durata tutta la mattina. Fu lei a suggerire che forse i corpi non erano stati ancora spostati e a insistere per andare a fare un sopralluogo nottetempo. Persino Marco rimase scosso da quell’idea, che sentiva un po’ profana e pericolosa, per chissà quale motivo. Lei insistette a lungo e infine quasi tutti acconsentirono.
In realtà, una volta giunti nello stesso luogo, nel tardo pomeriggio, quando il sole era già calato da tempo oltre il profilo dei monti, soltanto Marco e lei erano riusciti a vincere la paura e a varcarne il cancelletto di ferro arrugginito. Gli altri tre loro compagni di avventure avevano prudentemente deciso di aspettarli fuori, nascosti agli occhi di un eventuale adulto che passasse da quelle parti.
Naturalmente, a parte il brivido che si prova sempre in certi luoghi, soprattutto se si ha un’immaginazione fertile, non era capitato proprio nulla. Ma loro due erano stati seduti su una vecchia pietra tombale coperta di neve per un po’ di tempo a parlare, guardando le stelle che si accendevano pigramente a oriente. Quella coltre bianca e soffice rendeva un’avventura paurosa qualcosa di diverso, e quel luogo a prima vista lugubre, accogliente e sereno.
Forse si rese conto lì, mentre parlavano, mentre gli altri cercavano di spaventarli lanciando rametti oltre il muro e sghignazzando, che avrebbe voluto tanto darle un bacio.

I sogni continuarono nelle notti successive. Erica non sembrò accorgersi di questi improvvisi risvegli, della sua sempre più frequente assenza nel talamo nuziale, durante le ore notturne. Marco cercava di ricordarsi ogni dettaglio, anche il più insignificante, ma era come se qualcosa mancasse. Come se qualche particolare si tenesse sempre oltre la sua portata.
Quando non riusciva a ricordare il sogno in modo completo, cioè la maggior parte delle volte, inevitabilmente la sua mente cercava di riempire i buchi con i suoi ricordi coscienti di quello che era successo.

Lui e Leda andavano allo stesso liceo. Una volta tornati a Milano e ricominciata la scuola si rividero e cominciarono a uscire insieme: in fondo era la naturale continuazione di quanto successo in vacanza. Con lei si sentiva elettrizzato, ricco di energia fresca e nuova che non sapeva nemmeno come impiegare. Era entusiasta. Di tutto.
Un giorno, durante una passeggiata al parco, si sedettero su una panchina e lei sembrava stranamente pensierosa. Lui si sentiva in imbarazzo e quella strana sensazione che aveva provato nel cimitero abbandonato, quella notte, tornò a bussare. Passarono qualche minuto in completo silenzio, mentre i cani giocavano incuranti del freddo ancora intenso. Poi Marco raccolse tutto il coraggio di cui poteva disporre e le girò il viso con una carezza. Lei lo guardò negli occhi e a lui parve leggervi dentro “Cosa aspetti?”. La baciò.
Si sentì molto orgoglioso di se stesso per tutta la camminata che lo riportò a casa sua, non lontano da lì. Era stato un bacio vero. Un bacio da adulto.

Quattro settimane. Soltanto quattro settimane. Ecco quanto era durato il loro “fidanzamento”. Poi, senza un reale motivo, si lasciarono, così come si erano messi insieme. Fu lei, a dire la verità, a prendere l’iniziativa, così come aveva fatto in montagna, in vacanza. Non fu molto gentile, lasciarlo per telefono, ma fu molto… Da quattordicenne. Forse una ragazza a quell’età ha bisogno di qualcuno che sia più grande, più maturo. Non poteva certo fargliene una colpa. Eppure in quei giorni di disturbi notturni e di ricordi inquietanti che emergevano dallo stanzino delle scope come un sinistro babau, lui si rendeva conto che gliene faceva una colpa eccome. Che una parte di lui era ancora arrabbiata e offesa, che pensava di non esserselo meritato affatto.
Ma naturalmente, frequentando lo stesso liceo, dovevano trovare in qualche modo il sistema di convivere pacificamente. Lui continuò a vederla, infatti, e a fingere che tutto andasse bene. Sospettava che lei facesse lo stesso.
Due anni dopo aveva conosciuto Erica. Si erano innamorati subito e si erano messi insieme. Man mano che gli anni passavano il ricordo di Leda sembrava sbiadire, diventare più tenue e privo di colori, mentre il rapporto con quella che sarebbe diventata sua moglie continuava, sempre più lanciati su binari paralleli che sembravano essere stati tracciati da qualcun altro. Sembrava a tutti assolutamente naturale che continuassero a stare insieme e che si sposassero. Erano sempre stati insieme. Quasi nessuno sapeva che la sua prima donna, il suo primo amore, era stata Leda.
Ma tanto cosa importava? In fondo era stato quello che sua madre avrebbe definito un “filarino”, una storiella da ragazzini. Quattro settimane. Soltanto quattro settimane. Pochi baci, niente di più.
Che peso può avere tutto questo di fronte a dodici anni con la stessa persona? A un rapporto adulto, concreto? Era soltanto un ricordo romantico e dolce, un momento di tenerezza. Niente di più. Ma allora da dove venivano questi sogni? Cosa c’era che non andava?

È fermo in mezzo a un incrocio. Le strade sono buie, i lampioni sembrano non funzionare. Lui la sta cercando. Sa che lei è l’unica che possa dargli una spiegazione, l’unica che sappia. Prende d’improvviso una decisione, imbocca una strada e si mette a correre. Le strade sono strane… Sembrano quelle familiari di sempre e contemporaneamente sono diversissime. Dettagli, minuscoli insignificanti dettagli. Ma llei dov’è? Non è angoscia quella che lo sta prendendo, è più che altro… Ansia? Preoccupazione? Come definire questo strano sentimento? Forse è una delle altre cose che lei può spiegargli. La chiama, ma gli risponde soltanto l’oscura eco della strada. Sembra che abbia piovuto: l’asfalto è lucido e riflette la luce delle stelle e della luna. Fa freddo e lei non si trova, non si trova da nessuna parte. Urla il suo nome ancora più forte, correndo.
Si svegliò di soprassalto, come tante altre volte ormai, e riuscì a malapena a controllarsi, all’ultimo istante, per non continuare a chiamarla nella sua camera da letto, in piena notte.

Un giorno staccò prima dall’ufficio per fare alcune commissioni e prese il tram che lo riportava verso casa. Ormai il pensiero di Leda sembrava riempire ogni momento di calma, ogni instante, e si insinuava prepotentemente anche nelle situazioni in cui avrebbe dovuto pensare a tutt’altro. Osservò le persone attorno a lui con un’aria di triste distacco. Non riusciva a capire perché.
Sì, è vero, l’aveva sognata anche altre volte, nel corso degli anni, ma mai con questa frequenza, con questa insistenza. Con questa enigmatica sensazione.
Sentì il trillo di un cellulare: una signora lo tirò fuori dalla borsetta e rispose.
-Pronto? Ciao Leda! Come stai? Tutto bene?
Marco si sentì mancare. Aveva sentito bene? Com’era possibile? Cercò di farsi avanti chiedendo: -Permesso, permesso… - fingendo di andare verso l’uscita, per avvicinarsi, provare a cogliere altri pezzi di quella telefonata. Arrivò la sua fermata, il mezzo si fermò e le porte si aprirono. Avrebbe dovuto scendere ma decise di rimanere sul tram, di seguire quasi istintivamente quell’impulso.
-Sì, sì, ho ricevuto il tuo messaggio, - continuava la signora - non so se sarò in grado di raggiungervi in montagna, ho dovuto dare la reperibilità…
Un’infermiera? E Leda era una sua collega? Aveva detto “raggiungervi in montagna”? Forse Leda andava ancora in vacanza in quel paesino della loro infanzia!
-No, aspetta un attimo, razionalizziamo, - si disse. -Quante “Leda” ci saranno a Milano? Decine e decine! Quali probabilità ci sono che si tratti proprio di lei?
Eppure no, era lei, ne era certo. Non poteva essere altrimenti.
Stava per girarsi verso la signora e chiederglielo, raccogliendo tutto il coraggio di cui disponeva, come aveva fatto quella volta al parco, ma la sentì dire: -Pronto? Pronto? Accidenti, questi affari!…
La comunicazione era caduta. Fermò il suo gesto a mezz’aria, con la bocca semiaperta. Espirò l’aria che aveva trattenuto nei polmoni per parlare. Avrebbe dovuto camminare un po’ più del previsto per andare a fare la spesa e per tornare a casa dove lo attendeva sua moglie. Scese dal tram con una sensazione di felicità e di malinconia che non sentiva da tempo. Tirò un forte sospiro trattenendo per un secondo l’aria gelida nei polmoni.

Rintracciarla non fu difficile. Al giorno d’oggi basta una ricerca su Internet, magari usando il computer dell’ufficio durante la pausa pranzo. Pochi minuti, se sai dove cercare. Dopo aver capito dove lavorava e aver fatto qualche domanda, riuscì a trovare anche il suo numero di telefono di casa. Scrisse tutti i suoi dati su un biglietto e non se ne separò per diversi giorni, indeciso sul da farsi. Che senso avrebbe avuto, in ogni caso, chiamarla dopo tutti questi anni? Il gesto avrebbe anche potuto essere male interpretato.
O forse no? Forse sarebbe stato interpretato nell’unico modo possibile. O forse non era questo di cui si stava preoccupando, in realtà… Forse era quello che aveva sognato a metterlo a disagio.
Cosa aveva dimenticato?
Niente.
Non aveva dimenticato proprio niente.
Si ricordava ogni cosa, ogni momento. Si ricordava di quando, emozionato, le aveva detto che l’amava e si ricordava che lei gli aveva risposto la stessa cosa. Si ricordava di quelle passeggiate nel parco. Si ricordava che non era stato un mese particolarmente magico o speciale, forse per la sua insicurezza, la sua inesperienza. Sapeva che se avesse avuto la possibilità di tornare indietro avrebbe agito diversamente. E si ricordava di quel pomeriggio, al telefono, in cui aveva ricevuto il benservito. E si ricordava, soprattutto, di come si era sentito. Di tutto quello che avrebbe voluto dire, che avrebbe voluto fare. Ma perché diavolo non aveva fatto niente? Per quieto vivere? Per paura? Per vergogna, forse?
No, non si trattava di rimpianti. Ma era finita così… poco elegantemente… così all’improvviso. Era un cerchio aperto e forse qualcosa nella sua vita glielo stava riportando alla luce perché lui lo chiudesse, perché finalmente ci facesse qualcosa.

-Pronto, parlo con Leda? - Il cuore batteva a mille fino a poco tempo prima. Ora, stranamente, era calmo. Tranquillo.
-Sì, chi parla? - Era lei. Era incredibile come avesse immediatamente riconosciuto la sua voce a distanza di anni.
-Sono Marco, ti ricordi di me?
Un attimo di silenzio dall’altra parte. Marco poteva sentire distintamente gli ingranaggi mentali di lei che pensavano ai vari “Marco” che conosceva (e sicuramente ne conosceva più di uno, il suo era un nome piuttosto comune), e che li scartava via via, un po’ per la voce, un po’ per quello che aveva detto e per il tono che aveva usato.
-Marco? Oh, santo cielo… Marco! Diomio, quanto tempo è passato!
-Già, come stai?
-Bene! Bene, sono davvero felice di sentirti… ma tu guarda un po’! E’ proprio un caso strano questo, lo sai? Pensa che in questi ultimi mesi mi è capitato di…
-Lo so. - Disse lui interrompendola. - O meglio, lo immagino. È capitato anche a me.
Si sentivano i respiri di lei nella cornetta. Lui la immaginava davanti a uno specchio, nel corridoio di casa sua, mentre si guardava, con un’aria interrogativa dipinta sul volto, emozionata e imbarazzata.
-Senti Leda, volevo chiederti una cosa.
-Dimmi - disse lei con un sussurro.
-Sei felice?
Un’altra breve pausa. Le serviva per metabolizzare completamente tutte le implicazioni di quella domanda, all’apparenza tanto semplice.
-Come chiunque altro, credo, - rispose - ma faccio del mio meglio.
-Ti capisco molto bene. - Disse lui.
-Senti, Marco… Io volevo dirti che… Per quello che è successo…
-Non c’è nulla da dire Leda. Eravamo bambini. Nessuno di noi ha nulla da farsi perdonare.
-Sì… Hai ragione.
-Ti amo, Leda. Ti ho sempre amata e ti amerò per sempre.
Lei si sentì gelare il cuore.
-Forse è meglio non sentirsi mai più… Ti prego, cerca di capirmi. Però… Però certe cose vanno dette. - Continuò lui. Sembrava che un masso enorme gli fosse stato tolto dalle spalle. Una specie di oppressione allo sterno che gli era stata levata di botto.
-Capisco. - Disse infine lei. -Capisco quello che stai facendo. Grazie.
-Sii felice. - Prima di poter cambiare idea o di dire qualcos’altro, riuscì a mettere giù la cornetta.
Leda sentì il click dall’altra parte. Dopo qualche secondo premette il tasto sul chordless che teneva in mano, nel corridoio di casa sua, davanti allo specchio. Poi andò nella sua camera, si sedette sul letto e pianse.

Marco tornò a casa dall’ufficio. Era allegro. Cucinò per Erica e poi si sdraiarono sul divano, abbracciati, a guardare un film preso a noleggio. Non riuscirono a vederne la fine. Si ritrovarono, mentre la videocassetta mostrava le immagini del secondo tempo, a letto, con i vestiti sparsi per tutto il tragitto, a fare l’amore appassionatamente. Si addormentarono abbracciati.
Marco si svegliò in ritardo.
Non era riuscito a sentire la sveglia.

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