L’Esame

2001 by abietto

Jonathan Levi aggrottò la fronte imperlata di sudore. Si passò rapidamente, quasi con un gesto stizzito, una mano sopra le sopracciglia. Faceva caldo, lì dentro. La temperatura e l’odore di disinfettante, forte e decisamente sgradevole, lo mettevano a disagio, eppure il sentimento prevalente in lui, in quel momento, era la speranza. Fece qualche passo, avanti e indietro, davanti alla sedia ergonomica fissata al muro da una barra di metallo su cui non si potevano scorgere viti o bulloni, e al tavolino su cui era posato un deck audiovisivo e un comunicatore. Se c’era una cosa che Levi odiava fino alla nausea, erano decisamente le attese.
Alla fine si sedette di nuovo e fece per infilare il deck. Si era quasi arreso alla possibilità di ingannare ancora un po’ di tempo guardandosi un film o ascoltando le ultime notizie, quando vide accendersi una luce verde sul comunicatore. Era finalmente giunto il momento di cominciare? Lo avrebbe scoperto subito: premette un pulsante sotto la spia che si illuminava a intermittenza, senza emettere alcun suono, e parlò.
- Sì?
- Signor Levi?
- Mi dica.
- Mi dispiace di averla fatta aspettare tanto, solo alcune domande di rito e poi potremo cominciare con l’esame olistico.
- D’accordo. - Ancora attese! Ancora domande! Non avrebbero mai finito di chiedergli le stesse identiche cose?
- Dobbiamo essere certi, prima di cominciare l’esame, che le sue sinapsi siano nella giusta configurazione conscia. Le domande che le farò potranno sembrarle stupide, ma non è tanto il contenuto delle risposte che lei ci darà a essere importante, quanto le singole parole che sceglierà, le inflessioni, il tempo di reazione, le possibili pause, capisce?
- Quanto ci vorrà per analizzare le mie risposte?
- Pochi minuti. La registrazione viene inserita direttamente nel Polivac. Poi potremo cominciare con l’esame vero e proprio.
- Va bene. Cominci pure, sono pronto.
Ci fu una piccola pausa dall’altra parte del comunicatore, accompagnata da un rumore di cartelle e fogli che venivano spostati. L’interlocutore riprese a parlare di lì a poco.
- Il suo nome?
- Jonathan Levi.
- Qual è il suo colore preferito?
- Ma che diamine!..
- La prego, risponda alla domanda… gliel’ho detto che all’apparenza possono sembrare stupide.
- Oh, al diavolo, d’accordo. Il Rosso.
- Ha un numero fortunato?
- Il sette mi è sempre stato piuttosto simpatico.
- Su quale pianeta si trova?
- Su Arturo II.
- Sa dirmi in che anno siamo, secondo il metodo di registrazione STT?
- Siamo nel 456 STT, che poi sarebbe il 2401 a. D., il 7908 dell’Era Bizantina, il 6160 del Calendario Ebraico, il 3152 ab Urbe condita, il 1819 del Calendario Islamico…
- Va bene, signor Levi, penso che possa bastare.
- Prego, si figuri. La prossima domanda?
- Solo poche altre, stia tranquillo. Come si sente in questo momento? Voglio dire… è affamato? Ha sonno? Altre sensazioni di questo tipo?
-No.
- Rispose Levi bruscamente.
- C’è qualche persona che vorrebbe avere al suo fianco?
- Dio, no! Ci mancherebbe altro.
- Le piaccono i rettili?
- Non particolarmente.
Levi si appoggiò allo schienale della sedia, sperando ardentemente che quelle domande finissero il prima possibile. Venne esaudito all’istante, quando la voce nel comunicatore affermò: - Le domande sono state inserite nel Polivac, signor Levi. Tra pochi minuti la richiamerò. Cerchi di avere ancora un po’ di pazienza.
- Grazie. - Riuscì soltanto a dire Levi. La lucetta verde intermittente si spense e non si riaccese più. Lui continuò a fissarla ancora per qualche secondo, come se temesse che il suo interlocutore si fosse dimenticato qualcosa all’ultimo minuto. Poi si rilassò e riprese in mano il deck audiovisivo. Lo portò alla testa e fece scorrere i programmi memorizzati, cercando di ammazzare il tempo.
Stava di nuovo passeggiando avanti e indietro, davanti al tavolino, passando da una porta all’altra, le uniche due uscite da quella stanza asettica e bianca, quando la spia verde si illuminò di nuovo.
- Pronto? - Disse Levi, stavolta con una nota decisamente più ansiosa nella voce.
- Signor Levi, eccomi di nuovo a lei.
- Com’è andato il test preliminare? Che cosa ha risposto il vostro cervellone?
- È tutto a posto. Lei sembra nelle giuste condizioni psicofisiche per affrontare l’esame olistico senza inquinare sostanzialmente i dati. La prego di oltrepassare la Porta Due e di entrare nella sala diagnostica.
Ora che il momento era arrivato, Levi si sentiva spaventato. Sperava tanto che quell’esame potesse rappresentare per lui la speranza di una cura o che, per lo meno, i medici scoprissero esattamente quel era il morbo di cui era affetto. Ma ora che era giunto il momento di varcare quella soglia si sentiva come pietrificato, con il dito ancora posato sul pulsante del comunicatore. Il sudore cominciò di nuovo a imperlargli la fronte e stavolta non ebbe nemmeno la presenza di spirito di asciugarlo con un frettoloso gesto della mano.
- Signor Levi?..
- Sì, mi scusi. Posso davvero entrare? È tutto a posto?
- Certo. Entri subito, la prego. Stiamo cominciando a scaldare i circuiti per i test.
- D’accordo. - Levi tolse il dito dal comunicatore, la lucetta si spense, la voce tacque nuovamente.
Si girò a osservare la porta come se potesse animarsi davanti ai suoi occhi e trasformarsi in un predatore Arturiano, lanciandosi su di lui con le fauci spalancate. Poi, lentamente, fece il primo passo nella sua direzione.

Il Centro di Medicina e Xenobiologia di Arturo II era famoso in tutta la Galassia conosciuta. Gli Arturiani erano una razza nota per le incredibili capacità intuitive ed empatiche dei suoi medici, nonché per l’indubbio primato di offrire i migliori chirurghi in tutto lo spazio colonizzato.
Levi entrò in quella stanza diagnostica e capì immediatamente perché. Non si può dire che non fosse inquietante, in un certo senso, ma in fondo ciò che inquietava le persone che vi entravano era il carico di paure e di aspettative che portavano con loro, più di ciò che vi trovavano dentro. La stanza era quasi completamente vuota, eccettuato un cilindro di fibroplastica trasparente con un’apertura ovale sul lato direttamente di fronte alla porta. Alcuni pannelli strumentali sibilavano piano e accendevano piccole luci colorate sulle pareti, mentre un fascio enorme di cavi usciva dalla sommità del cilindro e spariva nelle piastre metalliche del soffitto. La stanza era illuminata debolmente da una serie di luci poste a intervalli regolari in cima alle quattro pareti.
- Si tolga tutti i vestiti, prego, ed entri nel cilindro sensoriale, signor Levi.
La voce, che proveniva da un punto imprecisato sopra di lui, lo fece trasalire. Cominciò a spogliarsi e ad appoggiare i suoi indumenti su un ripiano che sporgeva dalla parete di fianco alla porta. L’ultimo pensiero che poteva preoccuparlo in quel momento era che qualcuno potesse osservarlo mentre si denudava.
Quando fu completamente svestito si avvicinò al cilindro. Rimase per un attimo fermo a osservare gli strumenti che sporgevano dai cavi, penzolanti dalla sua sommità. Poteva notare un respiratore, una pinza e quello che sembrava l’emettitore di una siringa spray.
Levi si fece coraggio ed entrò. Non appena fu all’interno, posizionato in piedi al centro del cilindro, una lastra fibroplastica praticamente invisibile chiuse ermeticamente l’apertura. Ora era completamente isolato dal resto dell’universo. Ci fu un violento e rumoroso soffio di disinfettante non alcolico proveniente da ogni direzione, in contemporanea. Era molto caldo, tanto che Levi temette di scottarsi. In men che non si dica, qualunque organismo estraneo avesse fatto entrare nel cilindro con sé, ipotesi peraltro piuttosto remota, dato che era stato scansionato dalla macchina di biofeedback più volte prima di entrare in quella stanza, era stato distrutto senza pietà. C’era solo lui, lì dentro, con il suo morbo sconosciuto.
La maschera del respiratore scese lentamente fino ad arrivare all’altezza del suo volto. Nel frattempo, da microscopici buchi alla base, del liquido caldo cominciò a fluire dentro la cavità. Levi sentì i piedi bagnati. Era abbastanza ovvio quello che sarebbe successo di lì a poco, quello che doveva fare, quindi si infilò il respiratore che cominciò a emettere aria a ogni sua inspirazione. In breve tempo il liquido riempì completamente il cilindro e lui si trovò a osservare l’esterno della stanza attraverso una lente rosea e leggermente distorta. La sensazione era tutt’altro che spiacevole, quasi come un utero artificiale in cui riposarsi. Si sentì assonnato, un effetto del narcotico miscelato all’area della bombola, suppose. Decise di arrendersi alle sensazioni che gli venivano suggerite e chiuse gli occhi. Quando le siringhe spray ipodermiche arrivarono a toccare il suo derma, prelevando campioni di DNA, di tessuti organici e di sangue, era già quasi completamente in stato di incoscienza.

Si svegliò senza poter dire per quanto tempo fosse rimasto addormentato. Il livello del liquido stava già calando. Evidentemente avevano inserito nel respiratore qualcosa per svegliarlo. Non aveva avuto alcuna coscienza della dematerializzazione e della scansione olistica completa che i raggi laser avevano compiuto su ogni sua singola cellula, su ogni porzione di DNA, su ogni connessione neurale, su ogni atomo del suo corpo. Per un breve momento era stato disintegrato e mischiato al liquido amniotico del cilindro, che ne aveva assunto le proprietà biochimiche, clonando ogni sua caratteristica e trasmettendo i dati ai raggi che erano collegati, a loro volta, con il cervello positronico di Polivac. Un pensiero senza dubbio inquietante, ecco perché gli Arturiani non lo pubblicizzavano molto con i loro pazienti, ed ecco perché la gente veniva addormentata durante il processo. Levi lo sapeva molto bene, ovviamente, ma sapere razionalmente qualcosa e provarla sulla propria pelle erano due cose diverse. Levi sapeva molto bene anche questo.
Quando il livello del liquido scese sotto il suo mento, Levi si tolse cautamente la maschera del respiratore e prese una lunga e profonda boccata di aria che sapeva ancora di disinfettante e soluzioni fisiologiche. Non aveva mai amato gli ospedali, e gli odori, in particolar modo, lo rendevano nervoso, lo facevano sentire profondamente a disagio. In quel momento, tuttavia, non ci fece molto caso. Il liquido continuò a defluire dal cilindro, aspirato presumibilmente dagli stessi fori che lo avevano immesso, e quando fu completamente scomparso, una doccia tiepida d’acqua pulita ripulì completamente il suo corpo. Un getto d’aria calda, quindi, lo asciugò, facendolo sentire come un bambino a cui un genitore robotico ha appena fatto un bagno caldo, sfregandolo energicamente ma con cura e attenzione su tutto il corpo. Infine la porta del cilindro si riaprì e lui poté uscire di nuovo nella stanza.
La voce, come lui si era aspettato, disse semplicemente: -Signor Levi, l’esame olistico è concluso. La preghiamo di rivestirsi e di tornare nella sala d’attesa. Entro poco tempo potremo darle una risposta.
Gli Arturiani erano indubbiamente molto efficienti. Non si poteva dire, tuttavia, che fossero molto esperti nella complessa arte della comunicazione sociale umana.

Levi si sentiva svuotato. L’unica cosa che gli rimaneva, mentre camminava avanti e indietro nella saletta d’attesa, sedendosi ogni tanto e illudendo se stesso di riuscire a guardare qualcosa con il deck audiovisivo, era la paura. Ormai non c’era altro che la paura di sentirsi comunicare la diagnosi che Polivac avrebbe estratto dai dati dell’esame olistico appena concluso. Era incredibile che una tale quantità di informazioni potesse essere processata in così breve tempo. Forse il computer poteva sbagliarsi… Forse qualche dato avrebbe potuto essere infilato nell’equazione errata, o forse, considerata la mole di lavoro, avrebbe potuto esserci un margine d’errore di qualche genere.
Ma in fondo Levi sapeva benissimo che questi pensieri erano dettati dal suo timore: un Polivac, che si sapesse, non aveva mai sbagliato un singolo calcolo in tutta la storia della produzione di quel modello di elaboratore positronico. Gli eventuali sbagli o scorrettezze (le poche che la storia aveva registrato) erano sempre e inevitabilmente state imputate a un errore umano. Ma gli Arturiani non erano esseri umani.
Inoltre la programmazione dell’esame olistico era una sorgente aperta di libero dominio in tutta la Galassia conosciuta ed era nota per la sua eleganza e la sua estrema, quasi maniacale, precisione.
No, non potevano esserci errori: sarebbe stato decisamente meglio spogliarsi la mente da una simile illusione. Era meglio accettare il verdetto del Polivac come un dogma di fede, una verità assoluta. Almeno al livello delle attuali conoscenze tecnologiche e mediche.
Mentre stava riflettendo su questo punto accadde quello che aveva temuto: si accese nuovamente la lucetta verde intermittente del comunicatore a interfono posizionato sul tavolino della sala d’attesa. Levi si lisciò i capelli, si passò la lingua sulle labbra, mordicchiandosi l’interno della guancia, quindi si sedette sulla sedia e lentamente premette il tasto corrispondente per accendere la comunicazione.
La mano gli stava tremando.
- Signor Levi?
- Sì, sono qui.
- Abbiamo appena ricevuto i dati processati dal Polivac, la diagnosi formulata in seguito al suo esame olistico.
Levi non riuscì a profferir parola. Rimase in attesa, in silenzio, quasi trattenendo il respiro. Alla fine, con un immane sforzo di volontà, riuscì appena a spiccicare nel comunicatore un: - Ebbene?
- Ebbene, devo informarla che lei è perfettamente sano. Non c’è traccia nelle sue cellule di qualsivoglia tipo di decadimento biologico. Stiamo riesaminando i dati per essere certi della loro esattezza, ma, come capirà, si tratta di una indagine di routine. I dati sono esatti, questo è certo.
Levi si appoggiò alla sedia e sospirò forte. Guardò il soffitto mentre la voce continuava a parlare.
- Non sappiamo come sia possibile. Non c’è nessuna spiegazione scientifica nota per questo fenomeno. Mi dispiace dirlo, ma né noi né Polivac abbiamo la più pallida idea della causa del suo… ehm… disturbo. E quindi, ovviamente, non possiamo avere nemmeno idea di come trovare una terapia adatta.
- Capisco… - Le orecchie gli stavano ronzando e la testa gli girava. Dovette fare uno sforzo per tornare ad appoggiarsi sul tavolino e parlare al comunicatore.
- Tuttavia siamo fiduciosi che questo esame possa fornire una documentazione interessante per la ricerca medica. Senza dubbio la sua scansione olistica potrà spingere le indagini su terreni finora sconosciuti. Sono certo che nell’arco di pochi decenni, o forse pochi secoli, riusciremo a trovare il metodo migliore per terminare la sua esistenza. Allo stato attuale delle cose, comunque, capirà che siamo molto spiacenti di non poter soddisfare la sua domanda di eutanasia. Ora, se non le dispiace, dovrebbe tornare alla Segreteria Centrale per sbrigare le ultime formalità. Buona giornata.
La lucetta verde si spense.
Levi si alzò e si avviò verso la Porta Uno.
Nemmeno le più avanzate tecniche mediche Arturiane del venticinquesimo secolo erano riuscite a trovare una risposta per la sua immortalità. Avrebbe dovuto attendere ancora. Pochi decenni. Forse pochi secoli.
Ma se c’era una cosa che Levi odiava fino alla nausea, erano decisamente le attese.

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