Il Vicino di Casa

April 21st, 2003 by Pablo

Che avrà più di me il mio vicino di casa?

Voglio dire: non che io sia invidioso, per carità, però c’è qualcosa di strano, qualcosa che non capisco e che mi irrita perchè ci rende diversi.
Lui ha qualcosa più di me e non riesco a capire cosa. Lui ha qualcosa che lo rende felice, allegro, attivo partecipe della vita sociale condominiale e del quartiere, ha qualcosa che lo distingue dagli altri, e soprattutto da me.

Ecco stasera per esempio: io torno a casa, orario normale per altro, saranno state le sette, settemmezza al massimo. Parcheggio davanti a quella gabbia di matti dove abito, sbatto lo sportello della macchina che stenta a chiudersi e che solleva un’ondata di polvere peggio dei vestiti di Trinità, entro nel palazzo, distolgo lo sguardo dal portinaio che ancora mi guarda di traverso per quella faccenda di Gesù Bambino e di Picaciù (*), anche se ancora il porco non ha la matematica certezza che sotto al passamontagna ci fossi io. E mi imbatto in Lui. Lui, l’essere perfetto. Il vicino di casa modello, quello che tutti vorrebbero incontrare quando tornano a casa dopo una lunga giornata passata a fare un cazzo in ufficio.

Eppure siamo coetanei, diciamo più o meno sulla trentina entrambi.
Lui bello, anzi bellissimo, col suo blazer blu, il vestito firmato, la barba fatta (alle sette di sera?), senza una piega sulla camicia, con in mano un cellulare da un milione e mezzo di euri che parla con persone importantissime di cose estremamente delicate e costose.
Sfodera un sorriso perfetto (ovviamente non sa cosa sia un dentista) mentre con la mano che non regge il cellulare apre l’ascensore per far salire me e quella gran figa della sua fidanzata perfettissima e biondissima che ci vogliono due settimane per scoparla tutta.

Entro in ascensore già leggermente contrariato, con in mano il frontalino dell’autoradio (scommetto che nella sua macchina c’è un coro gregoriano che canta quando vuole distrarsi) che ovviamente mi cade e per un pelo non si infila in quel piccolo pertuso che c’è tra la cabina dell’ascensore e la colonna.
Naturalmente mi vola una bestemmia che comunque le sue orecchie non sentono in quanto dotate dell’ultima versione del filtro anti volgarità che ha un buffer di memoria di un mese nel caso incontrasse uno come me in gionata no.
Mentre raccolgo il cazzo di frontalino, faccio scivolare lo sguardo sulle gambe della Sua fidanzata perfettissima e biondissima cercando di raccogliere quanto più materiale mnemonico-masturbatorio possibile per i momenti difficili, quando inevitabilmente alzo gli occhi e l’orrore mi travolge di colpo, come un freddo calcio in pancia.

Lo specchio.

Sapevo che quando la fottuta assemblea condominiale aveva deciso di installare gli specchi nelle ascensori stava facendo una cazzata colossale, ma tutt’al più pensavo che la gente si sarebbe schiacciata i brufoli in ascensore lasciando per il prossimo sventurato passeggero dei simpatici pallini gialli attaccati alla superficie vetrosa, che tanto poi quel porco del portinaio passa col lanciafiamme e i bambini possono usare l’ascensore nuovamente senza prendere la leptospirosi. Ma non averi mai immaginato un uso tanto crudele di un oggetto così comune: il confronto.

Per cominciare è alto almeno una spanna più di me, quello si vede subito. Ha un buon odore. Cazzo vi rendete conto? Questo tizio alle sette di sera ha un buon odore! A differenza mia che sembro aver spalato letame tutto il giorno (con la faccia però, che se no non si spiegherebbero gli occhi da fatto con cui mi sto guardando nello specchio).
Nella migliore delle ipotesi sembro sdrucito rispetto alla disinvolta nonchalanche con cui gli cascano i vestiti, nella peggiore, a lui cascano bene, a me cascano e basta.
Ho la barba sfatta, l’alito che sembro una guida alpina per via del rum di ieri sera, un mal di testa da competizione e a fatica trattengo dei rutti solo perchè aumenterebbero inevitabilmente la mia acidità di stomaco. Ho le scarpe sporche (e forse ho pure schiacciato uno stronzo) e quando sto per chiedergli a che piano va, lui ha già premuto il pulsante del mio (ovviamente il bastardo se lo ricorda il mio piano, io non so nemmeno se sono nella scala giusta). Lo ringrazio con voce rotta e sottotono e lui mi risponde abbagliandomi con l’ennesimo perfetto sorriso a cui cerco di ricambiare con un’alitata che manco in Africa.
Lui ovviamente non la sente perchè ha la versione aggiornatissima del filtro narico-duodenodeo che blocca tutti gli odori che non sono nella gamma degli abre magique della collezione 2003.

Atterrito, non fingo nemmeno di attaccare bottone con inutili conversazioni da ascensore, ma mi chiudo nel mio dolore e mi guardo le sporche punte delle scarpe tutto l’interminabile viaggio.

Al mio piano, nemmeno a dirlo, lui mi apre la porta di trecento chili dell’ascensore con un solo movimento del pollice, saluta cordialmente con l’intonazione di chi è appena uscito dal ventre della Canalis, sorride (’fanculo, la prossima volta mi tengo pure gli occhiali da sole), e quando la porta dell’ascensore si richude, non fa nemmeno rumore. Un istante dopo è sparito con la valchiria verso chissà quale strano mondo di elfi che lui chiamerà casa. Pure l’ascensore mi pare che sia ripartito più velocemente del solito.

E io torno a casa, con l’erba in soggiorno, pregando - sapendo anche che non avverrà mai - che si trancino i cavi dell’ascensore e che gli possa capitare una morte altrettanto perfetta.

(*) Una sordida storia di sesso e droga avvenuta nel mio palazzo dalle parti di Natale che non racconto perché non è ancora caduta in prescrizione.

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